Una questione ricorrente nella vita dell’azienda che è spesso fonte di dubbi e di controversie è rappresentata dal verificarsi di furti ad opera di collaboratori e lavoratori subordinati.

La recente riforma del diritto denominata “Cartabia” (D.Lgs. n. 150/2022, art. 85) ha parzialmente innovato la disciplina penale della fattispecie, prevedendo per l’ipotesi di furto commesso con abuso di prestazione d’opera (artt. 624, 61 n. 11 c.p,) la pena della reclusione da sei mesi a tre anni congiunta con la multa da Euro 154 a 516, l’arresto (facoltativo) in flagranza e la detenzione preventiva a richiesta del Pubblico Ministero.

Secondo un recente arresto della Corte di Cassazione (n. 31345/17, seguito dalla sentenza n. 40289/18), il supremo giudice ha chiarito che, “ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 624-bis c.p., la nozione di privata dimora comprende esclusivamente i luoghi dove si svolgono non occasionalmente atti di vita privata e che non sono aperti al pubblico, né tantomeno accessibili a terzi senza il consenso del titolare. Tra questi luoghi rientrano anche quelli destinati all’attività lavorativa o professionale”.

 

SENZA QUERELA NON SI PROCEDE A LIVELLO GIUDIZIARIO

Tuttavia (è questa la novità) la punibilità e subordinata alla presentazione della querela della parte lesa (legale rappresentante o titolare dell’azienda) entro tre mesi dalla conoscenza del fatto.

La querela è suscettibile di rinuncia sia espressa (dichiarazione di rinunciare a proporre la querela o rinuncia alla querela già presentata) che tacita (compimento di atti o fatti incompatibili con la volontà di querelarsi o di mantenere in essere la querela già presentata).

Nel procedimento penale intentato contro l’autore del reato è facoltà del querelante costituirsi parte civile per chiedere il risarcimento dei danni subiti.

L’eventuale rinuncia alla querela (possibile sia preventivamente che in qualunque fase e stato del procedimento, sino alla sentenza definitiva) si estende automaticamente a tutti coloro che hanno commesso il reato.

 

LA CONTESTAZIONE E LA SOSPENSIONE DEL LAVORATORE

Sul versante strettamente contrattuale, il furto (indipendentemente dall’eventuale presentazione della querela), giustifica il licenziamento per “giusta causa” del lavoratore, preceduto o meno dalla sospensione cautelare (“l’adozione della misura della sospensione cautelare non priva il lavoratore del diritto alla retribuzione nel caso in cui essa venga unilateralmente disposta dal datore di lavoro, mentre nell’ipotesi in cui essa sia prevista e consentita dalla disciplina legale o negoziale del rapporto, e nei termini specifici in cui lo sia, l’effetto sospensivo investe anche l’obbligazione retributiva).

Il furto in azienda, infatti, rappresenta un comportamento illecito nonché un grave inadempimento degli obblighi contrattuali del dipendente ex art. 2119 c.c.

 Tale condotta, infatti, lede il vincolo fiduciario posto alla base del rapporto tra datore di lavoro e dipendente e, pertanto, impedisce la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto di lavoro, giustificando così il licenziamento in tronco, a nulla rilevando lo scarso valore commerciale del bene sottratto al datore (in tal senso v. Cass. n. 25186/2016; Cass. n. 18184/2016; Cass. n. 17914/2016; Cass. n. 23365/2009) o l’eventuale restituzione della refurtiva.

Va precisato, tuttavia, che la sottrazione dei beni aziendali dev’essere – con la massima precisione e tempestività – contestata al lavoratore con la procedura di cui all’art. 7 L. 20 Maggio 1970 n. 300 (l’immediatezza della contestazione disciplinare va intesa in senso relativo, dovendosi dare conto delle ragioni che possono cagionare il ritardo, quali il tempo necessario per l’accertamento dei fatti o la complessità della struttura organizzativa dell’impresa).

Nel caso in cui si verifichino dei furti in azienda l’onere della prova grava sul datore di lavoro e la giurisprudenza stabilisce che la condotta del lavoratore dev’essere accertata in modo concreto e non come fatto astratto; diventa quindi di fondamentale importanza per l’azienda che vuole licenziare il proprio dipendente, raccogliere prove concrete, inconfutabili e producibili in giudizio.

 

INVESTIGAZIONI E VIDEOSORVEGLIANZA

A tal fine, il datore di lavoro può avvalersi di un’agenzia investigativa per tutelare l’immagine ed il patrimonio aziendale come pure ricorrere alle registrazioni audiovisive e agli altri strumenti di controllo a distanza (adottati nel rispetto dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori e del D.Lgs. n. 23/2015 ), alle visite personali di controllo (attuate ai sensi dell’art. 6 del medesimo Statuto) come pure alle testimonianza ecc.

Va chiarito, però, che prima di poter installare un impianto di videosorveglianza sul luogo di lavoro, di norma  è necessario avere uno specifico accordo con le organizzazioni sindacali (se presenti in azienda) o, l’autorizzazione rilasciata dall’Ispettorato Territoriale del Lavoro, previa apposita istanza.

Per ottenere tale autorizzazione devono ricorrere esigenze organizzative e produttive ovvero di sicurezza del lavoro (da estendere anche al concetto di tutela del patrimonio); non è, invece, necessario il preventivo consenso dei lavoratori in materia di privacy che è previsto dagli artt. 23 e 24 del D.Lvo n. 196/2003; esso, infatti, non ha nulla a che fare con la procedura prevista dall’art. 4, comma 2, della L. n. 300/1970 sulla videosorveglianza, che indica nell’accordo con le rappresentanze sindacali aziendali eventualmente presenti in azienda (o con l’Ispettorato del lavoro) la strada maestra per la legittimazione dell’impianto, viceversa l’informativa consegnata ai dipendenti non è tra i documenti da allegare all’istanza, anzi, il mantenimento dell’impianto a circuito chiuso all’interno della sede aziendale è una delle condizioni più importanti cui si ricorre al fine di evitare che si possano liberamente visionare le immagini da postazione remota mediante l’impiego di PC, tablet o telefoni cellulari.

 La giurisprudenza tende ad identificare come luoghi soggetti alla normativa in questione anche quelli esterni dove venga svolta attività lavorativa in modo saltuario o occasionale (ad es. zone di carico e scarico merci). Sarebbero invece da escludere dall’applicazione della norma quelle zone esterne estranee alle pertinenze della ditta, come ad es. il suolo pubblico, anche se antistante alle zone di ingresso all’azienda.

 

LA GEOLOCALIZZAZIONE DEL LAVORATORE

Altra questione sempre di grande interesse è quella dell’uso del geolocalizzatore in ambito lavorativo.

Il potere di vigilanza del datore di lavoro è una conseguenza diretta del potere direttivo che gli spetta in quanto titolare dell’impresa; egli ha la facoltà di controllare, anche a distanza, l’operato dei propri dipendenti al fine di accertarsi sulla loro correttezza nello svolgimento dell’attività affidata e gli strumenti utilizzati dal lavoratore per la propria prestazione (pc, tablet, cellulari, ecc.) come quelli di registrazione degli accessi e delle presenze (il classico badge) possono quindi essere liberamente utilizzati dal datore per ottenere dati e informazioni attinenti all’attività lavorativa dei dipendenti, ma solo se:

  • è stata data al lavoratore adeguata informazione circa le modalità d’uso degli strumenti stessi e l’effettuazione dei controlli;
  • è stata rispettata la normativa in tema di privacy;
  • lo strumento utilizzato dal lavoratore per adempiere la prestazione non viene appositamente modificato per controllare il singolo lavoratore.

In buona sostanza, il datore è libero di utilizzare i dati del Gps dell’auto aziendale senza dire alcunché solo nel caso in cui il sistema sia necessario per lo svolgimento dell’attività del dipendente, altrimenti, dovrà far riferimento ad un accordo sindacale o ad un’autorizzazione dell’Itl sempre nel rispetto della privacy del lavoratore.

Appurato che il datore, in certe circostanze e a determinate condizioni, può controllare a distanza il lavoratore utilizzando gli strumenti messi a disposizione del dipendente per lo svolgimento della sua attività, il controllo con il Gps dell’auto può servire per ricavare i dati che possono condurre al licenziamento ed  essere usate in una causa in tribunale

Si consideri, ad esempio l’installazione generalizzata del GPS su tutti i mezzi aziendali utilizzati o in dotazione dei lavoratori, secondo la Corte di Cassazione il monitoraggio mediante geolocalizzazione dei lavoratori non è giustificato se finalizzato ad ottenere un controllo pressoché illimitato sui lavoratori. Tuttavia con la sentenza n. 26968/16 la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha giudicato legittimo il licenziamento di un dipendente sulla base dei dati ottenuti con il GPS installato sull’auto aziendale..

Alla luce di questo, i giudici hanno concluso che l’uso di un dispositivo GPS da parte del datore di lavoro fosse un mezzo di controllo legale che non rientra nell’ambito della sorveglianza a distanza e che non viola la privacy o la dignità del lavoratore o degli altri colleghi posti nella stessa situazione, pertanto, i dati raccolti da questo dispositivo sono validi e giustificano la contestazione disciplinare ed il successivo licenziamento.

 

ANCORA SULLE PROCEDURE, COSA C’È DA SAPERE

Tornando, brevemente, al licenziamento per furto, il principio dell’autonomia regola anche le possibili interferenze tra procedimento penale e giudizio civile; pertanto, se il giudice civile è chiamato a giudicare sulla legittimità di un licenziamento per asserita giusta causa, determinato da un contegno astrattamente integrante gli estremi di un reato su cui pende un procedimento, deve procedere con autonomia all’accertamento dei fatti e della responsabilità del lavoratore.

In altri termini, il giudice civile non è vincolato alle decisioni del giudice penale e non è tenuto a sospendere il giudizio avanti a sé in attesa della definizione del giudizio penale: del resto la mancata attivazione del processo penale per il medesimo fatto addebitato, dovendosi effettuare una valutazione autonoma in ordine alla idoneità del fatto a integrare gli estremi della giusta causa o giustificato motivo del recesso” (Cass. 21549/2019).

Cosa accade, però, se il giudizio sulla legittimità del licenziamento si svolga quando sia già intervenuta, sullo stesso fatto, una sentenza penale passata in giudicato?

Come appena accennato, il giudizio penale è tendenzialmente autonomo rispetto al giudizio civile e autonomi sono anche i provvedimenti emessi all’esito dei relativi giudizi (Cass. 19260/2019, che richiama Cass. 14.9.2000 n. 12141; Cass. 9.4.2003 n. 5530).

Vi sono, tuttavia, delle eccezioni al principio, regolate nel codice di procedura penale

Il codice, infatti, distingue a seconda che si tratti di giudizio per le restituzioni o per il risarcimento del danno dovuti dal condannato o dal responsabile civile (artt. 651 c.p.p. e 652 c.p.p.), di giudizio per l’accertamento della responsabilità disciplinare del pubblico dipendente (art. 653 c.p.p.), o di altri giudizi civili o amministrativi (art. 654 c.p.p.).

Nel rapporto di lavoro privato, il giudizio di impugnazione del licenziamento rientra nell’ultima previsione (art. 654 c.p.p.), questa diposizione prevede che la sentenza penale irrevocabile di condanna o di assoluzione, pronunciata in seguito a dibattimento, ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo nei confronti dell’imputato,: la norma, pertanto, circoscrive l’efficacia del giudicato penale alle sole parti che abbiano concretamente partecipato al giudizio penale.

La medesima disposizione richiede, perché si produca il vincolo, che i fatti ritenuti rilevanti in sede penale ai fini della decisione, debbano avere rilevanza decisiva anche in sede civile e che la legge civile non ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa; in assenza di solo una di tali condizioni, la sentenza penale non ha efficacia di giudicato nel giudizio di impugnazione della sanzione disciplinare e il giudice civile dovrà provvedere autonomamente all’accertamento ed alla valutazione dei fatti posti alla base del licenziamento per asserita giusta causa.

Le regole sopra descritte non destano particolari problemi nel caso di sentenze penali di condanna, che vincolano  il giudice civile chiamato a giudicare sulla legittimità del licenziamento.

Di maggiore complessità è, invece, il tema della vincolatività della sentenza penale di assoluzione; in effetti tale pronuncia conserva il suo effetto preclusivo nel giudizio civile solo quando contenga un accertamento specifico ed effettivo in ordine alla insussistenza del fatto e della partecipazione dell’imputato; qualora l’assoluzione sia stata pronunciata a norma dell’art. 530 comma 2 c.p.p. (ossia quando “il giudice pronuncia sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile”) ovvero in caso di carenza dell’elemento soggettivo (formula assolutoria: “perché il fatto non costituisce reato”), tali pronunce non vincolano il giudice civile perchè, in entrambi i casi anche se la condotta del lavoratore non configura un reato, essa ben potrebbe essere idonea a recidere il legame di fiducia con il datore di lavoro..

La sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti a mente dell’art. 444 c.p.p., (la c.d. sentenza di “patteggiamento”), ancorché inidonea a vincolare il giudice civile, ha finito per acquisire valore probatorio dinnanzi a quest’ultimo. Del resto, con la sentenza di patteggiamento l’imputato non nega la propria responsabilità e accetta una determinata condanna, chiedendone (o consentendone) l’applicazione, non contestando né il fatto né la propria responsabilità. Inoltre, nel caso in cui il contratto collettivo consideri la sentenza penale di condanna passata in giudicato quale fatto idoneo a consentire il licenziamento, il giudice di merito può ben ritenere che gli agenti contrattuali, utilizzando l’espressione “sentenza di condanna”, si siano ispirati al comune sentire che a questa associa la sentenza cd. “di patteggiamento”.

In conclusione, pur senza ambire alla completezza dell’esame della disciplina del furto aziendale, possiamo concludere affermando che il procedimento penale e quello civile si svolgono autonomamente e gli esiti dell’uno di norma non condizionano quelli dell’altro; il licenziamento “in tronco” per il furto aziendale è possibile anche indipendentemente dalla proposizione della querela con l’unico onere per il datore di lavoro di disporre di prove concrete, legittimamente acquisite, anche attraverso moderni sistemi di controllo a distanza e purché rispetti le regole del procedimento disciplinare.

 

 Avv. Renato Ragozzino

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