A cura dell’Avv. Renato Ragozzino
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Capita che, nel corso del rapporto di lavoro, un dipendente diventi inidoneo alle mansioni per cui era stato assunto o alle quali era stato successivamente designato.
La circostanza solleva problemi, sia per il datore di lavoro che non può più avvalersi della risorsa umana per disporre della quale aveva proceduto all’assunzione del dipendente, sia per il lavoratore che, venuta meno la sua funzione nell’azienda, rischia il licenziamento.
Come prevedibile la questione è fonte di controversie con esiti contrastanti e dunque va affrontata con particolare prudenza.
Prima di affrontare i vari temi della questione è opportuno chiarire di cosa si sta trattando.
Con il termine mansioni ci si riferisce al complesso di compiti affidati al lavoratore al momento dell’assunzione (o in un momento successivo) che richiedono, per essere svolti, la sua idoneità fisica e professionale.
Per sopravvenuta infermità, comportante la inidoneità del lavoratore a svolgere le mansioni contrattuali, ci si riferisce ad una condizione fisica o psichica grave o cronica che rende l’individuo che ne è colpito totalmente o parzialmente inabile al lavoro o, per meglio dire, consiste in un giudizio medico, secondo il quale il lavoratore non può assolutamente adibito a svolgere determinate mansioni o a fare un determinato lavoro.
DIFFERENZA TRA MALATTIA, INIDONEITÀ E INVALIDITÀ
E’ bene precisare che mentre la malattia, per la quale il lavoratore è esentato provvisoriamente dalla prestazione lavorativa, ha carattere temporaneo ed è destinata a risolversi con la guarigione a seguito della terapia praticata al paziente, l’inidoneità si caratterizza per essere una condizione di impossibilità a svolgere determinate mansioni (permanente o con una durata temporale indeterminata o quantomeno indeterminabile), anche quando il soggetto ha raggiunto la guarigione clinica dalla condizione patologica acuta e le sue condizioni si sono stabilizzate, con la conseguenza da essa deriva un’impossibilità parziale o totale del lavoratore alla prestazione contrattuale.
Come è noto, la durata della malattia, durante la quale vige il divieto di licenziamento (cd periodo di comporto) è stabilita dalla contrattazione collettiva applicata ed è generalmente quantificata in 180 giorni per anno civile.
Nel caso in cui il lavoratore (per malattia o infortunio) sia diventato invalido al lavoro (cioè gravato da qualsiasi incapacità, totale o parziale, derivante da un danno alla salute fisica o psichica, di compiere un lavoro ragionevolmente esigibile nella professione o nel campo d’attività abituale) e per questo consegua una prestazione pensionistica, allora se non residuano adeguate capacità lavorative, cessa il rapporto di lavoro.
A differenza dell’invalidità, che esprime un criterio medico legale in forza del quale ottenere la prestazione assicurativa o sociale, l’inabilità è una valutazione relativa alle capacità lavorative del singolo individuo, cosi che, a prescindere dallo stadio evolutivo della condizione patologica del soggetto, il lavoratore è ritenuto inidoneo a svolgere taluna o qualsiasi attività lavorativa per l’impresa presso cui è occupato.
L’INIDONEITÀ SOPRAVVENUTA DEL DIPENDENTE
La questione dell’inidoneità sopravvenuta del dipendente allo svolgimento delle mansioni e le condizioni che possono legittimare, in questi casi, il suo licenziamento per giustificato motivo oggettivo, indipendentemente dall’eventuale superamento del periodo di comporto, sono stati tema di un lungo dibattito giurisprudenziale e legislativo;
Con gli artt. 1 e 4 della Legge n. 68/1999 è stato, infine, stabilito che:
- I datori di lavoro, pubblici e privati, siano tenuti “a garantire la conservazione del posto di lavoro a quei soggetti che, non essendo disabili al momento dell’assunzione, abbiano acquisito per infortunio sul lavoro o malattia professionale eventuali disabilità”;
- per tali lavoratori l’infortunio o la malattia non costituiscono giustificato motivo di licenziamento nei casi in cui si possa adibire gli stessi a mansioni equivalenti o inferiori.
L’ACCERTAMENTO DELLA INIDONEITÀ
La tutela della sicurezza sul lavoro comporta (anche) la verifica dell’assenza, nel lavoratore, di situazioni fisiologiche o patologiche capaci di comprometterla.
Tale verifica è compito specifico del medico competente il quale, nell’esecuzione della sorveglianza sanitaria, deve verificare l’assenza di controindicazioni alla mansione cui il lavoratore è destinato.
L’accertamento dell’inidoneità sopravvenuta del lavoratore viene effettuata dal medico competente su richiesta del lavoratore e dalla Commissione medica istituita presso l’ASL, su richiesta del datore di lavoro.
Del resto, è lo stesso D. Lgs n. 81/2008 che prevede in capo al datore di lavoro, nell’ambito della sorveglianza sanitaria, l’obbligo di far accertare, l’idoneità del dipendente alla mansione specifica sia all’atto di costituzione del rapporto che successivamente, con specifiche cadenze o al verificarsi di taluni presupposti, come il cambio delle mansioni o di malattie o situazioni fisiopatologiche capaci di comprometterla (obbligatoriamente a seguito di assenza per motivi di salute di durata superiore ai sessanta giorni continuativi, la visita dev’essere effettuata il giorno stesso del rientro, prima di riprendere l’attività lavorativa).
Al termine della visita medica, sulla base delle risultanze della stessa, il medico esprimerà un giudizio scritto relativo alla mansione specifica che potrà essere:
- di idoneità;
- di idoneità parziale, temporanea o permanente, con prescrizioni o limitazioni;
- di inidoneità temporanea (con precisazione dei limiti temporali di validità);
- di inidoneità permanente.
Tali giudizi sono comunicati al lavoratore e al datore di lavoro.
I DOVERI E I DIRITTI DEL DATORE DI LAVORO
Qualora il medico competente emetta nei confronti di un dipendente un giudizio di inidoneità temporanea alle mansioni, il datore di lavoro ha l’obbligo di sollevare temporaneamente il dipendente dalle mansioni alle quali è addetto e adottare tutte le misure necessarie a tutelarne l’integrità fisica (secondo le indicazioni del sanitario) o adibendolo ad altre lavorazioni o limitando quelle attribuitegli alle prescrizioni del medico (es. sollevamento limitato di pesi) o, infine, sospendendone l’attività.
Qualora, pur a conoscenza dello stato di inabilità temporanea del lavoratore, il datore (anche su richiesta dello stesso lavoratore) decidesse comunque di farlo lavorare o di fargli svolgere le stesse mansioni, potrebbe essere ritenuto responsabile di un eventuale aggravamento o compromissione dello stato di salute del lavoratore.
Avverso i giudizi del medico competente il lavoratore potrà presentare ricorso entro 30 giorni all’organo di vigilanza territorialmente competente che, dopo ulteriori accertamenti potrà confermarlo, modificarlo o revocarlo.
Oltre al caso di inidoneità temporanea del dipendente alle mansioni, si possono verificare casi nei quali il rapporto di lavoro, in teoria potrebbe continuare ma il datore di lavoro decida di sospenderlo per un determinato periodo di tempo.
Basti pensare all’ipotesi in cui il datore di lavoro decida di sospendere il rapporto in pendenza del termine per proporre ricorso nei confronti del giudizio del medico competente o nel caso di fondato sospetto sulla sussistenza dell’inidoneità, in attesa del giudizio del medico.
La questione che si è posta è se, in casi di questo tipo, caratterizzati di fatto da uno stand by del rapporto di lavoro, sussista o meno l’obbligo retributivo da parte del datore di lavoro.
L’orientamento maggioritario sostiene che il datore di lavoro non sia tenuto al pagamento della retribuzione nei casi descritti o se le prestazioni lavorative sono state vietate dalle prescrizioni del medico competente perché in tal caso sarebbe legittimo il rifiuto del datore di lavoro di riceverle (cfr. Tribunale di Verona, Sent. n. 6750/2015).
LE CONSEGUENZE DEL GIUDIZIO DI INIDONEITÀ, GLI ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
L’art. 42 del D. Lgs n. 81/2008, stabilisce che “il datore di lavoro attua le misure indicate dal medico competente e, qualora le stesse prevedano un’inidoneità alla mansione specifica, adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza”.
Secondo tale norma, perciò, il datore di lavoro, dovrà, in primo luogo, verificare se esistono altre mansioni disponibili a cui adibire il dipendente e in secondo luogo accertare se tali mansioni – ovvero mansioni inferiori – siano compatibili con l’inabilità dello stesso, infine, in assenza di mansioni disponibili alle quali il dipendente possa essere adibito il datore di lavoro potrà procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Sulla scorta di questi criteri, in questi anni, si sono sviluppati due diversi orientamenti.
Un primo orientamento sostiene che gravi a carico del datore di lavoro, l’obbligo di attuare le soluzioni organizzative più idonee ad assicurare il rispetto dei diritti del lavoratore, fermi due limiti: il giudice non potrà sindacare nel merito i criteri di gestione dell’impresa, costituenti espressione della discrezionalità del datore di lavoro (cfr. Cass., n. 160/2017) e il lavoratore ritenuto idoneo ad una diversa mansione non potrà rifiutarsi di svolgere le mansioni assegnate; (cfr. Cass., n. 831/2016).
Recentemente sta prendendo forma un diverso indirizzo che, sostiene che il lavoratore giudicato inidoneo alla mansione potrebbe venire a trovarsi in una situazione di “disabilità”, intesa come una limitazione (causata da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature) tale da ostacolare in maniera significativa la partecipazione del soggetto alla vita professionale in condizioni di uguaglianza con gli altri lavoratori (cfr. Sent. CGUE 11 aprile 2013 C- 335/11 e C-337/11).
Il datore di lavoro in casi di questo tipo non dovrebbe limitarsi a verificare la presenza in azienda di posizioni compatibili con lo stato di salute del dipendente ma si richiederebbe l’adozione di “accomodamenti ragionevoli”, intendendosi per tali le modifiche e gli adattamenti necessari e idonei a tutelare il lavoratore.
A titolo esemplificativo nella nozione di “accomodamenti ragionevoli” sono compresi lo spostamento del lavoratore in locali diversi, l’adeguamento degli stessi, le riduzioni e modifiche degli orari di lavoro con il limite dell’eccessiva sproporzione di tali misure dal punto di vista finanziario.
In particolare, la Corte di cassazione (cfr. Cass. 6798/2018), richiamando una direttiva comunitaria (Direttiva n. 78/2000) ha stabilito che è illegittimo il licenziamento motivato sulla sopravvenuta inidoneità del lavoratore alle mansioni assegnate se il datore di lavoro non abbia previamente accertato, non solo la possibilità di adibire il dipendente ad altre mansioni, ma anche di adottare “soluzioni ragionevoli” tali da consentire al lavoratore di svolgere il proprio lavoro.
In ogni caso, grava sul datore di lavoro sia l’onere di dimostrare l’impossibilità di utilizzare il dipendente in mansioni equivalenti e in un ambiente compatibile col suo stato di salute, sia quello di confutare le eventuali allegazioni espresse in sede processuale dal dipendente circa il suo possibile repèchage in altre mansioni in azienda (Cass. n. 33341/2022)
La decisione di licenziare il lavoratore, peraltro, dev’essere ponderata con particolare prudenza, dato che le conseguenze nel caso in cui il licenziamento venisse ritenuto illegittimo sono decisamente gravi: a seconda delle dimensioni occupazionali dell’impresa in caso di illegittimità del licenziamento il lavoratore, infatti, avrà diritto ad essere riassunto, o, in mancanza, al risarcimento del danno.
Ma cosa succederebbe se il licenziamento venisse dichiarato illegittimo dal giudice quando il datore di lavoro l’avesse intimato, sulla scorta del giudizio (poi rivelatosi errato) di inidoneità fisica alla mansione formulato da una struttura sanitaria pubblica.
Secondo la Corte di cassazione (Cass. Lav. ord. n. 11248 del 28.04.2023), in tal caso, “poiché il datore di lavoro non può non tener conto dell’autorità e della posizione di terzietà della struttura pubblica e non può certamente disattendere le relative valutazioni e adibire il dipendente alle mansioni cui (secondo la ASL) è risultato inidoneo, se non prestandosi al grave rischio della responsabilità per danno alla salute, pur in presenza di un successivo diverso accertamento dell’idoneità del lavoratore”, allo stesso spetterebbe soltanto il risarcimento del danno ma il licenziamento manterrebbe la sua efficacia.
IN SINTESI, QUANDO È LEGITTIMATO IL LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO?
Cercando di trarre le conclusioni dell’analisi svolta, tra i presupposti che possono legittimare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo del dipendente in conseguenza di una inidoneità sopravvenuta alle mansioni devono concorrere:
- uno stato di sopravvenuta inabilità di natura tale da non consentire una prognosi sulla relativa durata;
- l’assenza in capo alla parte datoriale di un interesse apprezzabile alle prestazioni lavorative del dipendente (art. 1464 c.c.);
- l’impossibilità di impiegare il lavoratore in altre mansioni compatibili con il suo stato di salute.
- Il venir meno delle capacità comunemente indispensabili per le attività oggetto del contratto, anche immaginando di impiegare il lavoratore in mansioni diverse o di livello inferiore
Il datore di lavoro, coadiuvato dal medico competente (il quale a sua volta deve attuare lo sforzo di uscire dalla consuetudine di formulare giudizi di idoneità dubbi o quello che è peggio ambigui) è tenuto ad attivarsi per rintracciare nell’ambito dell’azienda un’adeguata collocazione del dipendente ed a proporla (per iscritto) al lavoratore
In questa prospettiva, se da un lato vanno salvaguardate l’autonomia datoriale e le scelte di organizzazione del lavoro del singolo imprenditore che non si può “costringere” a rimanere ostaggio di un rapporto di lavoro dove la prestazione dell’altra parte può essere diventata (in tutto o in parte) impossibile, dall’altra sarebbe un errore ritenere legittimo il licenziamento del lavoratore nella generalità dei casi di inidoneità sopravvenuta (definitiva) alle mansioni.
Nel bilanciamento di tali diritti e interessi può rappresentare un criterio utile nella soluzione di tali criticità considerare l’obbligo in capo al datore di lavoro non può essere di portata tale da imporgli di modificare l’assetto organizzativo dell’azienda da lui stesso insindacabilmente stabilito o da comportare oneri organizzativi eccessivi o da determinare a carico di singoli colleghi dell’invalido la privazione delle mansioni o lo stravolgimento delle modalità di esecuzione della loro prestazione lavorativa.
Ne consegue che è legittimo il licenziamento per sopravvenuta e permanente inidoneità di un lavoratore quando l’adozione degli opportuni adattamenti organizzativi comporti, oltre che oneri finanziari non proporzionati, un inasprimento dei rischi per la salute e sicurezza per gli altri lavoratori nonché inefficienze produttive (Cass. 27243/2018; Cass. 10018/2016).
Sul piano pratico, va strenuamente scongiurata l’instaurazione di contenziosi, di esito sempre incerto e nei quali vengono considerate molteplici variabili che possono influenzare in maniera significativa, a favore dell’una o dell’altra parte, l’esito del giudizio.