Capita che per reati commessi durante la prestazione lavorativa (o sul posto di lavoro) o anche al di fuori di essa il lavoratore sia sottoposto a un procedimento penale, accompagnato o meno da misure restrittive della libertà personale.
E’ questione ricorrente quale sia la posizione che deve tenere il datore di lavoro e se possa o meno procedere al licenziamento del lavoratore nella pendenza del processo a suo carico o se, invece, debba attendere la sentenza.
Altra questione, connessa alla prima, è se l’eventuale proscioglimento del lavoratore nel procedimento penale determini il venir meno della validità del licenziamento intimatogli a seguito dei fatti di cui era accusato (ma di questo tratteremo in un prossimo articolo, su questa rivista).
Va precisato che tali questioni vengono trattate in modo diverso dalla normativa in materia di lavoro privato e in materia di lavoro pubblico (ma che in questo articolo si farà riferimento solo al lavoro privato del dipendente subordinato).
IL PRESUNTO REATO È COLLEGATO ALL’ATTIVITÀ LAVORATIVA?
Riguardo agli effetti di una misura cautelare personale sul rapporto di lavoro dipendente, è necessario distinguere il caso in cui la misura cautelare penale sia stata disposta per un fatto penalmente rilevante, ma ininfluente ed estraneo all’attività lavorativa, dal caso in cui il fatto commesso sia direttamente correlato al rapporto di lavoro e perciò d’immediata rilevanza anche sotto il profilo disciplinare.
Nel primo caso, gli effetti della misura cautelare sul rapporto di lavoro sono strettamente collegati al tipo di misura cautelare che viene applicata dal giudice al lavoratore; se, infatti, viene adottata una misura coercitiva di carattere restrittivo, il lavoratore risulterà – salvo rare eccezioni– impedito di fatto a svolgere la propria attività lavorativa.
Tuttavia se il fatto-reato non costituisce anche un illecito disciplinare, si è del parere che l’applicazione di una misura coercitiva determini, un’impossibilità sopravvenuta della prestazione, non imputabile al lavoratore, a norma dell’art. 1464 c.c.
SOSPENSIONE O LICENZIAMENTO?
In quest’ ipotesi non viene contestato un illecito disciplinare al lavoratore e, di conseguenza, non si verifica una sovrapposizione tra il procedimento penale e il procedimento disciplinare; si tratta, piuttosto, degli effetti che l’adozione di una misura cautelare personale può esprimere sull’effettiva possibilità per il lavoratore di adempiere alle proprie obbligazioni contrattuali in ragione della limitazione della sua libertà personale e – in tal caso – l’art. 2110, comma 2 c.c., prevede la possibilità per l’imprenditore di sospendere temporaneamente il lavoratore o di recedere dal contratto per l’assenza involontaria dal lavoro ma solo dopo il decorso del tempo stabilito dalla legge.
In questa congiuntura, infatti, il datore di lavoro potrebbe essere interessato a sospendere momentaneamente il rapporto di lavoro in attesa che il dipendente riacquisti la propria libertà e riprenda a lavorare oppure, considerando le oggettive esigenze dell’impresa quali le dimensioni dell’azienda, il tipo di organizzazione tecnico-produttiva, il periodo di assenza del lavoratore, la prevedibile durata dello stato di carcerazione, la natura e la fungibilità delle mansioni espletate dal lavoratore detenuto, la possibilità di affidare temporaneamente dette mansioni ad altri dipendenti, nonché ogni altra circostanza rilevante ai fini dell’accertamento della misura della tollerabilità, trovare più vantaggioso risolvere il contratto e procedere a una nuova assunzione.
Si potrebbe pensare che questa situazione venga a realizzarsi solo quando vi sia una restrizione detentiva (custodia in carcere), ma vi sono ipotesi in cui anche altre misure (gli arresti domiciliari, il divieto di espatrio, l’obbligo di presentarsi alla polizia giudiziaria, l’obbligo o il divieto di dimora) possono – di fatto – impedire al lavoratore di prestare la propria attività lavorativa, comportando anch’esse – a discrezione del datore di lavoro – la sospensione o il licenziamento (per giustificato motivo) del lavoratore.
Un effetto diretto sul rapporto di lavoro discende anche dalle misure cautelari cosidette interdittive (artt. 289, 290 c.p.p.), perché con la loro adozione il giudice penale può sospendere il lavoratore indagato dall’esercizio di un ufficio o servizio o porre un divieto temporaneo di esercitare determinate professioni, imprese o uffici.
Se poi la misura cautelare che ha determinato il recesso del datore di lavoro venisse a posteriori riconosciuta come ingiusta – perché nei confronti dell’imputato è stata pronunciata sentenza di assoluzione, di proscioglimento, di non luogo a procedere ovvero è stata disposta l’archiviazione del procedimento penale a suo carico – il lavoratore acquisterà il diritto a essere reintegrato nel posto di lavoro.
Tale garanzia, prevista dall’art. 102-bis disp. att. c.p.p., presuppone però che il licenziamento sia stato fondato esclusivamente sul fattore obiettivo della misura cautelare applicata al lavoratore.
LICENZIAMENTO: C’È UN AUTOMATISMO?
Come si è detto, è necessario distinguere, in materia di lavoro, i casi in cui la misura cautelare sia relativa a fatti irrilevanti sotto il profilo disciplinare dai casi in cui si assiste alla doppia valenza illecita del comportamento tenuto dal lavoratore, infatti, qualora la misura cautelare riguardi fatti rilevanti anche sul piano disciplinare, è evidente che la sua adozione possa avere dei riflessi diretti nella prospettiva disciplinare, sebbene non si verifichi alcun automatismo, considerato il principio di autonomia del procedimento disciplinare rispetto al procedimento penale.
Quindi, se, la misura cautelare penale riguarda un fatto che possa rilevare direttamente anche sotto il profilo disciplinare, essa può determinare tanto la sospensione cautelare quanto il licenziamento del lavoratore in tronco; é questa, infatti, una misura di diritto del lavoro che non afferisce all’involontario impedimento del lavoratore a rendere la prestazione ma propriamente al potere disciplinare del datore di lavoro, risultando a esso connessa «sia sul piano temporale sia su quello funzionale».
La sospensione in abito disciplinare è tradizionalmente preposta «all’accertamento dei fatti relativi alla violazione da parte del lavoratore degli obblighi inerenti al rapporto, che esaurisce i suoi effetti con l’adozione dei provvedimenti disciplinari definitivi»; é, quindi, una misura che viene adottata dal datore di lavoro quando risultino necessari particolari accertamenti finalizzati all’applicazione della sanzione disciplinare e si renda opportuno, nelle more delle indagini, l’allontanamento del dipendente per evitare una possibile interferenza sui risultati probatori, sia eventuali e ulteriori danni all’organizzazione datoriale.
Il presupposto della sospensione (cautelare) in questo caso è costituito dalla commissione di un illecito disciplinare di cui si è avuta notizia, ma ancora da accertare, di conseguenza, nel momento in cui vi sia coincidenza tra il comportamento rilevante sul piano disciplinare e il fatto integrante reato viene a realizzarsi «un duplice nesso: tra il procedimento penale e quello disciplinare e tra la misura cautelare disposta dal giudice penale e la sospensione cautelare adottata dal datore di lavoro».
In tale caso, però, l’eventuale licenziamento del lavoratore non sarà adottato per giustificato motivo ma intimato per giusta causa, in via autonoma sulla base di elementi ulteriori – quali, per esempio, un illecito disciplinare o la compromissione del rapporto fiduciario – e non può più essere condizionato né dalla misura coercitiva disposta da giudice né dalla sentenza che, anche fosse di proscioglimento non determinerebbe la reintegrazione del lavoratore o l’annullamento del licenziamento.
L’illecito penale per il quale è stata adottata la misura cautelare può, quindi, giustificare l’esercizio del potere disciplinare solo se il fatto oggetto del provvedimento penale risulta idoneo a giustificare una sanzione disciplinare.
In particolare, se l’illecito penale contestato è in grado di ledere irrimediabilmente il rapporto fiduciario alla base del rapporto di lavoro, il datore di lavoro può esercitare il proprio diritto di recesso ex art. 2119 c.c., indipendentemente sia dagli esiti del processo penale, sia da quelli del della misura cautelare adottata ma in ragione delle sole risultanze del procedimento disciplinare.
In altri termini «è generalmente ammessa la possibilità che la vicenda penale e quella civile procedano su piani distinti e che il dipendente sia licenziato per giusta causa (in tronco), quando tali fatti ne integrino gli estremi»
In mancanza di una precisa disciplina legislativa è intervenuta, in alcuni settori, la norma della contrattazione collettiva che prevede che in caso di applicazione di una misura «restrittiva della libertà personale» l’automatica sospensione del lavoratore – anche sotto il profilo retributivo.
Se tutte le misure coercitive previste negli artt. 280 ss. c.p.p. incidono, in diversi modi e a vari livelli, sulla libertà personale, è evidente che la custodia cautelare in carcere (art. 285 c.p.p.) impedisca di fatto ad ogni lavoratore di adempiere alle proprie obbligazioni.
Si potrebbe ipotizzare, a questo proposito che anche gli arresti domiciliari siano di ostacolo alla prestazione lavorativa e che pertanto, anche a prescindere dalla rilevanza disciplinare della condotta del lavoratore, ne legittimo la sospensione e il licenziamento.
ARRESTO E PERMESSO DI LAVORARE ANCHE IN SMART WORKING
È, tuttavia, da considerare, per un verso, che il giudice potrebbe autorizzare l’imputato ad assentarsi nel corso della giornata dal luogo di arresto per esercitare l’attività lavorativa (art. 284, comma 3 c.p.p.) e, per altro verso, che alcune attività lavorative possono essere svolte nel luogo in cui viene eseguita la misura cautelare (si pensi al telelavoro).
D’altra parte, se nella maggior parte dei casi le misure cautelari diverse dalla custodia in carcere e degli arresti domiciliari non impediscono al lavoratore di prestare la propria attività lavorativa, è però evidente che in alcune ipotesi anche tali misure possano riflettersi negativamente sul rapporto di lavoro: si pensi, per esempio, agli effetti del divieto di avvicinamento a un determinato luogo (art. 282 ter c.p.p.), dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria (art. 282 c.p.p.) o dell’obbligo di dimora nel settore dei trasporti (e perciò riguardo al personale addetto alle imprese). Parimenti, anche il divieto di dimora può avere effetti sulla prestazione lavorativa allorché il luogo di lavoro sia ubicato dove viene impedito di dimorare all’imputato.
Se, inoltre, la persona offesa dal reato è un collega di lavoro, anche la misura del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (art. 282-ter c.p.p.) può impedire il regolare svolgimento dell’attività lavorativa, salvo che il giudice prescriva modalità particolari quando la frequentazione del luogo sia «necessaria per motivi di lavoro» (art. 282-ter, comma 4 c.p.p.).
La nozione di «misure restrittive della libertà personale» è idonea a ricomprendere, nella prospettiva della sospensione obbligatoria dal lavoro, anche le misure precautelari dell’arresto (art. 380 c.p.p. ss.) e del fermo di indiziato di delitto (art. 384 c.p.p.) ed anche l’applicazione provvisoria delle misure di sicurezza (artt. 312-313 c.p.p.). Una volta cessata la misura restrittiva della libertà, la sospensione cautelare potrà perdurare, ma solo se risulti necessario evitare ulteriori prevedibili nocumenti all’organizzazione imprenditoriale o garantire la fase istruttoria del procedimento disciplinare.
Anche in questo caso, tuttavia, le fonti contrattuali prevedono che la sospensione cautelare obbligatoria non incida sul potere del datore di lavoro di recedere dal contratto per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, così assicurando l’esercizio del potere disciplinare ogniqualvolta il reato contestato nel provvedimento cautelare assuma valenza anche disciplinare.
Diversamente, qualora mancasse una previsione a salvaguardia del potere disciplinare del datore di lavoro, si potrebbe ritenere che la sospensione debba comunque perdurare per il tempo della custodia o fino alla pronuncia della sentenza penale di primo grado.
A tale ultimo riguardo, tuttavia, la giurisprudenza ha rilevato che dalle regole contrattuali non discende l’obbligo di sospendere cautelativamente il lavoratore fino all’esito del processo penale, ben potendo il datore di lavoro esercitare il proprio potere di recesso in maniera del tutto autonoma rispetto alla pendenza e agli esiti del processo penale; il datore di lavoro, inoltre, potrebbe anche decidere di non sospendere il lavoratore sottoposto a una misura cautelare penale, nonostante il contratto collettivo lo preveda espressamente.
Tale decisione, in ogni caso, non comporterebbe la abdicazione dall’esercizio del potere disciplinare, in quanto la sospensione consiste in un provvedimento di carattere provvisorio e temporaneo che non viene ad incidere sul giudizio definitivo del datore di lavoro in merito alla sanzione disciplinare.
Questa, in estrema sintesi, la panoramica delle possibili situazioni che potrebbero venire a crearsi ove il lavoratore sia sottoposto al procedimento penale ed ai provvedimenti restrittivi della libertà personale ad esso spesso connessi; ma cosa avviene quando il processo si conclude?
Cosa succede se, alla fine il lavoratore viene prosciolto?
Come accennato queste questioni saranno affrontate in un prossimo articolo.