Inail: le indicazioni per valutare il rischio di caduta in piano https://www.inail.it/cs/internet/docs/alg-pubbl-valutare-il-rischio-caduta-in-piano.pdf

Il primo volume pubblicato si intitola “Valutare il rischio di caduta in piano. Progetto RAS, Ricercare e Applicare la Sicurezza, Volume 1” e presenta non solo una rassegna dei dati sugli infortuni per scivolamento e caduta, ma anche precise indicazioni sui criteri e protocolli per la valutazione del rischio.
L’articolo si sofferma sui seguenti argomenti:
– Cadute in piano: dimensione infortunistica e indicazioni normative
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– Gli standard per la classificazione delle superfici in rapporto allo scivolamento 
- Cadute in piano: dimensione infortunistica e indicazioni normative

Il documento – curato da Erminia Attaianese, Gennaro Bufalo, Raffaele d’Angelo, Gabriella Duca, Gabriella De Margheriti, Paola De Joanna, Alfonso Giglio, Liborio Mennella, Ernesto Russo – ricorda che in Europa gli infortuni collegati a scivolamento e caduta sui luoghi di lavoro “rappresentano il maggior numero di infortuni in tutti i settori lavorativi, compreso il lavoro d’ufficio, e sono motivo delle principali assenze dal lavoro superiori ai tre giorni specialmente nelle piccole e medie imprese (PMI)”.

Partendo da questa constatazione si segnala che in Italia le statistiche riflettono il trend europeo e “le cadute in piano rappresentano la terza causa di infortunio di tutti i comparti produttivi con circa il 15% di tutti gli infortuni di cui sono note le cause”.
Inoltre le cadute in piano “causano infortuni anche gravi nei lavoratori con una durata media di assenze di 38 giorni, durata superata soltanto da quelle dovute alle cadute dall’alto e dagli infortuni per impiglio/aggancio (rispettivamente, di 47 e 49 giorni)”.
E gli indennizzi corrisposti a seguito di cadute in piano “ammontano a oltre 90 milioni di euro (costi diretti) e rappresentano una delle prime voci di spesa dell’Inail”.
Si segnala poi che il rischio di caduta in piano da scivolamento “rappresenta oggi un rischio normato dal d.lgs. 81/08 e s.m.i., che il datore di lavoro è obbligato a valutare, per identificare adeguate misure di miglioramento”.
Attualmente la valutazione “è condotta solo per gli ambienti nei quali questo è riconosciuto come rischio specifico e porta abitualmente alla prescrizione di calzature con suola antiscivolo”. Tuttavia – continua il documento – “le mutevoli condizioni di esercizio possono determinare situazioni di usura, umidità superficiale e contaminazione, che influiscono sulla sicurezza delle pavimentazioni, compromettendo spesso anche la sicurezza dei lavoratori che indossano DPI”.
Si segnala poi che il problema della valutazione di questo rischio “si estende anche al terziario per il quale è importante prendere appropriati provvedimenti per evitare che si possano verificare rischi non solo per i propri dipendenti ma per tutti i soggetti che, per qualsiasi motivo e indipendentemente dal tempo di permanenza, sono presenti nell’ambiente di lavoro”.
Gli standard per la classificazione delle superfici in rapporto allo scivolamento
Come indicato in premessa il documento, che riporta varie e interessanti analisi sul rischio caduta in piano e sul correlato rischio scivolamento, si sofferma poi sui criteri di valutazione del rischio e presenta un’analisi della letteratura tecnica e scientifica sul tema della scivolosità delle pavimentazioni.
Ci soffermiamo, in particolare, sugli “standard volontari applicabili per la classificazione delle superfici in rapporto alla resistenza allo scivolamento”.

Si indica che gli standard attualmente riconosciuti dagli organismi internazionali di normazione “possono essere distinti in relazione alla classificazione delle superfici, alla valutazione del rischio di scivolamento e alla definizione dei requisiti per le superfici di camminamento. In merito alla classificazione delle superfici sono riconosciuti diversi strumenti e protocolli di prova da eseguirsi in situ o in laboratorio”.
Ci sono, tuttavia, due ordini di difficoltà, “dovute sia all’impossibilità di correlare i risultati di diverse prove tra loro, dal momento che esse non fanno riferimento alle stesse tipologie di grandezze, sia alla aleatorietà delle condizioni di misura che, seppur reiterate con gli stessi parametri, forniscono risultati differenti. Ciò rende impossibile ad oggi il consenso necessario per elaborare una norma armonizzata tra i diversi metodi di prova”.
Si indica che un passo verso uno standard unico “è stato compiuto in merito all’armonizzazione delle procedure di calibrazione dei tribometri per la valutazione del coefficiente d’attrito” (la tribometria concerne “la misura della resistenza allo scivolamento dei piani di calpestio”).
Si segnala poi che “gli standard europei riferiti a metodi di prova della scivolosità dei pavimenti sono la EN 1341-1342- 1343/2003 e EN 14231/2004”. Queste norme individuano “il metodo di prova previsto per la marcatura CE dei prodotti di pietra naturale per pavimentazioni” e utilizzano la “prova a pendolo” per rilevare la scivolosità delle superfici.
A questo standard si sono poi “attestate le norme italiane e britanniche con l’emanazione degli standard nazionali BS EN 14231:2003, UNI EN 1341-1342-1343/2003 e UNI EN 14231/2004”.
Il documento si sofferma poi sulla norma DIN 51130/2008 in Germania e ricorda, infine, che “in ragione della stretta correlazione con le condizioni di sicurezza di utenza, la scivolosità è richiamata espressamente nell’ambito dei requisiti necessari per la marcatura CE dei prodotti prevista dalla direttiva CE 89/106. In Italia la direttiva 89/106 è stata recepita con il DPR 21 aprile 1993 n. 246, regolamento di attuazione della direttiva 89/106 CEE relativa ai prodotti da costruzione e successive modifiche con DPR 10 dicembre 1997 n. 499”.

Tiziano Menduto